Seikosha Tensoku, orologio da pilota

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    Bello ma rabbrividisco
     
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    Aggiungo una " coda " per parlare di un giapponese che amò l'Italia e combatté con noi nella Prima Guerra Mondiale.
    Chiamiamolo un " samurai quasi italiano ".
    Harukichi Shimoi era nato nel 1883 nei pressi di Fukuoka, quarto figlio del samurai Kikuzo Inoue. Il cognome Shimoi viene dal suo padre adottivo, architetto, commerciante di legnami e futuro suocero, Kisuke Shimoi.
    K.S adottò il ventiquattrenne Harukichi nel 1907 in seguito ad una grave crisi economica che aveva ridotto sul lastrico la sua famiglia, un evento piuttosto comune tra le famiglie samurai che subirono le trasformazioni dell’epoca Meiji.
    Harukichi studiò alla Scuola Magistrale di Tokyo, l’attuale Università di Tsukuba, e ottenne la laurea in anglistica.
    Mentre insegnava in un liceo femminile, fece uno di quegli incontri che ogni tanto danno una svolta inaspettata alla vita delle persone. Conobbe il traduttore, critico letterario e anglista Bin Ueda, fondatore del movimento modernista nipponico Pan No Kai, e fu introdotto da quest’ultimo alla Divina Commedia.
    Shimoi s'innamorò perdutamente di Dante, e raccolse libri e studi danteschi, traduzioni in francese, tedesco, inglese fondando la " Dante Toshokan ", la prima " Società Dantesca Giapponese ". Si iscrisse alla * Gaikoku-go-Gakko / Scuola Speciale di Lingue Straniere * ed iniziò a studiare l’italiano, più o meno negli stessi anni in cui l’italianista Yamakawa Heisaburo traduceva in giapponese " l’Inferno ".
    Nel 1915 decise di trasferirsi in Italia e grazie all’Ambasciatore Alessandro Guiccioli, un marchese ravennate, tipico rappresentante della carriera di età liberale, ottenne l’incarico di lettore di lingua giapponese al " Reale Istituto Orientale di Napoli " la più antica scuola di sinologia europea. Tra i quartieri popolari e il notabilato cittadino, al mattino Shimoi leggeva nei caffè la rivista di Vincenzo Siniscalchi, L’Eco della Cultura, poi dopo aver pagato raggiungeva la bancarella di Via Toledo dove don Gaetano Pappacena, storico libraio analfabeta, lo intratteneva con i racconti della storia della città. Grazie all’amicizia con l’ispanista Gherardo Marrone, Shimoi fu introdotto nei salotti bene di Napoli e prese a frequentare gli ambienti culturali dell’avanguardia che all’epoca subivano il fascino del futurismo, l’audacia delle sperimentazioni artistiche, la spinta utopistica di certe ideologie primo-novecentesche. Egli si legò in particolare allo scultore Raffaele Uccella ed a Elpidio Jenco, entrambi propugnatori di una visione artistica che aderiva ai principi futuristi dell’artecrazia teorizzata da Marinetti. Fu in questo ambiente fecondo di arte e lettere e politica rasente l’utopia, quello raccontato così bene da Luciano Caruso in " Futurismo a Napoli " che Shimoi maturò come intellettuale e poeta, ripetendo quel miracolo che la generazione dei suoi genitori, ad eccezione forse proprio del padre, avevano compiuto all’indomani dell’arrivo delle cannoniere di Perry. Accolse lo straniero, si immerse nelle acque di una cultura estranea, ne bevve dalla fonte e ne uscì come " scugnizzo giapponese ", italiano in tutto tranne che nel suo essere giapponese.
    Forse, soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscere quei giapponesi cresciuti in Occidente può capire questo miracolo di incontaminata contaminazione.
    Negli anni che precedettero il baratro della guerra ( non " La Grande Guerra " bensì " l'Enorme Carneficina " ! ) verso cui la locomotiva europea stava ciecamente correndo, Shimoi continuò ad insegnare all’Orientale e grazie al suo amico Morone pubblicò le prime raccolte di poesie e scritti giapponesi sulla rivista " La Diana " tipico zibaldone novecentesco con uno scritto a mo’ di prefazione di Benedetto Croce. Quest’ultimo rappresentava in quegli anni il principale teorico della poesia pura e diede a Morone il coraggio necessario per pubblicare giovani intellettuali, futuristi, neoliberisti, metafisici, dadaisti, oltre alle sperimentazioni di Saba, Ungaretti e Onofri.
    Quando iniziò il conflitto Harukichi Shimoi, professore uso a tradurre poesie, chiuse il suo ufficio e volle conoscere il fronte come inviato de " Il Mattino " e " Il Mezzogiorno ". Nel 1914 il Giappone si schierò al fianco dell’Intesa, vinse la " Kaiserliche Marine " tedesca a Tsingtau e, tre anni dopo, inviò l’incrociatore Akashi e alcuni cacciatorpediniere nel Mediterraneo per operazioni antisommergibile. Shimoi si sentì fin da subito partecipe di quella tragedia e grazie alle sue conoscenze riuscì ad eludere l’obbligo per la stampa straniera di restare nelle retrovie e raggiunse la prima linea.
    Grazie all’intervento dell’ambasciata nipponica, egli fu raccomandato dal generale Caviglia, ex addetto militare a Tokyo e in quel momento comandante in capo delle truppe italiane, dal senatore regio Giuseppe De Lorenzo, geografo e orientalista, e dal Ministro Francesco Saverio Nitti. La guerra italiana vista da un giapponese raccoglie l’epistolario di Shimoi e le sue corrispondenze con De Lorenzo e Nitti. Quest’opera, da un punto di vista letterario scarna, disadorna, discontinua, incerta sintatticamente ma forzatamente schietta e sincera, si inserisce perfettamente nel solco delle opere di altri come " Il Giappone in armi " di Barzini, " Kobilek " di Soffici, Trevelyan e il suo " Scenes from Italy’s war ", Poore, Fairbanks, Page, e su tutti Hemingway.
    Nella prosa di Shimoi quel fascino tipicamente marinettiano per la guerra bella ( * più bella della Vittoria di Samotracia * ) urtava l’evidente senso di smarrimento di fronte al dramma della morte e della sofferenza. Shimoi cercava nella carne ferita e nello spirito orgoglioso degli italiani quel senso di pietà e dignità che aveva scoperto in Dante. Se doveva scendere agli inferi, Shimoi voleva credere che fossero popolati da anime dannate ma comunque umane, anche di fronte al peccato e al dolore della pena.Le trincee dovevano essere la guerra, sì, ma quella " del cammino e de la pietate ".
    Shimoi scriveva di non aver interesse per la gloria spinta dalla vanità, bensì per l’eroismo puro, " perciò divino ", di giovani e vecchi che compiono ogni giorno atti straordinari senza essere ricordati da nessuno. Per lui Enrico Toti, umile operaio mutilato della gamba destra, che si arruolò volontario e morì in trincea, era degno della più altissima tradizione dell’aristocrazia guerriera giapponese.
    Sotto la medesima coltre di umiltà, Shimoi descrisse il salvataggio di un soldato italiano ferito dalla mitraglia austriaca : gli fasciò la gamba martoriata, se lo caricò a spalla e lo portò al posto di medicamento. Tra le cime dell’Adamello, le mulattiere del Pasubio o le acque del Tagliamento e del Piave, nulla seppe però attrarre quel piccolo giapponese come le truppe degli Arditi. L’Ardito, la " più potente scultura del genio latino " secondo D’Annunzio, il " guerriero più simile a quello di Maratona ", che diede un nome e una divisa al coraggio e che meglio di qualunque altro corpo personificò quel misto di anarchismo, genio e amor di patria che da sempre caratterizza il popolo italiano.


    ( fonte Wiki : nel 1917, verso la fine della prima guerra mondiale, Shimoisi arruolò volontario nel Regio Esercito e prese parte alle operazioni di combattimento. In seguito divenne un Ardito, insegnando ai suoi commilitoni l'arte del karate.
    Partecipò alla battaglia del solstizio, alla battaglia di Vittorio Veneto e ad altre battaglie. Mentre era a Trento, la guerra finì, dopo di che tornò a Napoli.
    Dopo la guerra Shimoi funse da collegamento, trasportandone segretamente le lettere, tra Gabriele D'Annunzio, reggente di Fiume, e Benito Mussolini, all'epoca a capo dei Fasci italiani di combattimento e direttore de Il Popolo d'Italia, sfruttando il suo passaporto diplomatico che gli permetteva una grande libertà di movimento. Shimoi era, tra l'altro, tra coloro che per primi seguirono il poeta abruzzese nell'impresa fiumana. D'Annunzio soprannominò Shimoi " camerata Samurai " e " samurai di Fiume ". Insieme promossero ed organizzarono il volo propagandistico Roma-Tokyo, poi terminato dall'aviatore Arturo Ferrarin )

    Edited by Ex Lansdalefan - 7/5/2024, 16:16
     
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    Una storia che non conoscevo.
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    Interessante e avventuroso.

    Naturalmente mi tocca ricordare che nel 1942 vede la luce il “Sistema Magini”, un cronografo sdoppiante da tasca divenuto protagonista, insieme a un Longines Lindbergh, della prima trasvolata, con volo a vista, da Roma a Tokyo. L’orologio ha la cassa in metallo cromato con pulsante coassiale alla corona, pulsante rettangolare al 4 per le funzioni cronografiche, e pulsanti correttori al 16 a al 24 per la rimessa rapida del mese e della data. La scritta “Sistema Magini” è riportata sul quadrante, ruotato di 15°, argentato, con le 24 ore smaltate e divisione a 60 minuti/secondi, finestrelle con indicazione del mese al 12 e della data al 24.
     
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